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“L’essere umano deve ricordare che è un animale e quindi che è natura” – così spiega Raffaele Mantegazza dell’Università degli Studi di Milano Bicocca (1) – “non c’è nulla nell’umano che possa sfuggire alla natura. La cultura è il nostro modo di essere natura: come l’usignolo canta, noi scriviamo poesie, costruiamo cattedrali.”

Natura e cultura sono legate profondamente già dal loro significato etimologico. Il termine natura presenta una derivazione estremamente articolata che racchiude in sé l’idea di totalità, nascita, crescita e divenire: le radici greche e latine – φύσις e φύω generare-crescere, γένος nascita γένη generazione da cui la radice latina gna e il verbo nasci nascere – evidenziano un unico significato: natura come la globalità delle cose e degli esseri esistenti nell’universo che nascono, vivono e muoiono, natura come il divenire del mondo. La parola cultura deriva dal verbo latino colere –coltivare, presupponendo così una azione dell’uomo sulla natura e su se stesso: con il passaggio dalla vita nomade a quella stanziale, coltivare viene esteso anche ad altri significati, come abitare un territorio, fare crescere e prendersi cura di elementi materiali e immateriali. Cultus, dunque, come cura del paesaggio e cura dell’essere umano nella sua parte spirituale e cognitiva.

Già dal periodo greco-romano la realtà non è mai concepita fine a se stessa e proprio l’osservazione e lo studio della natura ha permesso la nascita della filosofia e lo svilupparsi del pensiero. La cultura è il nostro modo di essere natura: è l’insieme delle cognizioni intellettuali che derivano dallo studio e dall’esperienza e che, rielaborate, diventano elementi costitutivi della nostra personalità morale e della nostra spiritualità. “Ogni separazione netta tra cultura e natura produce alienazione, una cultura che non serve” – continua Mantegazza – “Non possiamo espellere la natura da noi, sarebbe come distruggere le nostre radici; ma possiamo elaborarla. La cultura è un modo di elaborare la natura.”

L’elaborazione della natura ci offre, dunque, l’opportunità di interrogarci ancora, come i primi filosofi greci, sul rapporto con la natura stessa, sul valore etico del nostro agire, aprendo la strada ad una inedita dimensione morale: ritrovare una nostra naturalità, ormai forse smarrita, ma anche non perdere una importante componente della nostra stessa umanità.

Alberta Piazza e Sergio Vecia tendono, con la loro ricerca artistica, a recuperare un’unità con la parte primordiale dell’universo, con i cicli della terra e la capacità rigenerativa della vita, osservando ed indagando elementi piccoli, all’apparenza inerti e immobili ma che hanno sempre accompagnato l’uomo nel corso della storia. I semi sono l’inizio e la fonte di ogni vita, simbolo di crescita ed evoluzione genetica, espressione della diversità e della moltitudine, della natura e della cultura. Autentiche macchine del tempo biologico, in essi sono scolpite le tracce di millenni di adattamento naturale, variando dimensioni, architettura esterna ed interna, durezza e forma in base ai cambiamenti climatici e delle specie. Ma sono anche incarnazione della coltura che li ha forgiati, convergenza tra intelligenza umana e intelligenza naturale, organismi sofisticati che contengono passato e futuro: il seme proviene dalla pianta che non vedi più, e porta in sé quella che non vedi ancora, recita un detto indiano.

Sergio Vecia rielabora le sue scoperte attraverso il mezzo fotografico: osserva con stupore, affascinato dalla misteriosa ed ineffabile presenza e dagli enigmi di forme quasi estranee ed aliene. Ne comprende l’immaginifica forza primaria ed elementare, racchiusa e cristallizzata, pronta, secondo un preciso piano accuratamente progettato, ad esplodere e svilupparsi. Dispone ogni seme, piccolo o grande, variamente irto di diversità, sotto il flusso continuo della luce: sospeso in una dimensione intermedia, ogni seme si svela, rivela le trame della sua complessità, mantenendo intatto e preservato il segreto della vita che scorre. Ogni scatto è un gioco di eterei bagliori che, nelle ombre, dichiarano esseri dormienti: pazientemente attendono mutamenti e passaggi, sospendono processi vitali o controllano i geni che li caratterizzano, solo perché affiori, immancabile, l’esistenza. Con necessità di sondare le infinite varietà, quasi come a rispondere ad una esigenza di catalogazione, Vecia indossa una lente invisibile, rivelando ai nostri sensi suoni e profumi, movimenti e cadenze, in una concertazione di danze ancora inespresse, fino a coincidere egli stesso come una parte del tutto.

Alberta Piazza conosce il trascorrere delle stagioni, la vita che muore e si rigenera: con le sue stesse mani ne accarezza la preziosità e l’inevitabilità per la sopravvivenza, ad ogni levar e sparire del sole. Opera con frammenti e radici, semi nascosti, legni e terre: li avvolge per custodire memorie e sapienze, ne snoda le storie lente e persistenti, ne racconta il lungo fragile andare. Su ogni tela e carta Alberta copre e conserva, rileva tracce e imprime segni, in un processo continuo e circolare di dissoluzioni e apparizioni: alterna materiali caduchi, reversibili e disintegrabili, che percorrono storie e viaggi nel tempo e nello spazio, riproduce suoni ancestrali di eterni voli. Con estrema accuratezza ricerca i minimi elementi, ne amplifica colori e forme attraverso un processo di sacralizzazione che lascia intravedere nuovi mondi e nuove vite da percorrere. Con l’atto di coprire e, allo stesso tempo, di portare in superficie, l’artista ci traghetta verso le origini remote dell’esistenza, tramandando riti di conoscenze e culture perpetuate nei secoli.

Così i semi non sono solo quelli materiali, ma le radici da cui traggono origine le capacità umane di indagare, pensare ed esperire, quelle capacità di relazioni e connessioni che generano comunità e diventano i presupposti di speranze concrete, quelle capacità che ci avvicinano al divino e all’universo che è in noi. Guardiani dei semi, giardinieri della speranza. (2)

Perchè viviamo o, meglio, per cosa viviamo? Viviamo per la conoscenza, viviamo per conoscere ciò che siamo e ciò che è il mondo.” (Marc Augé)

1 Intervista a Raffaele Mantegazza su Rai Cultura in occasione della rassegna“MeetMeTonight, Faccia a faccia con la ricerca” – 2017

2 Vandana Shiva, Festivaletteratura di Mantova, 2013

SEMIdei
Alberta Piazza e Sergio Vecia

A cura di Roberta Melasecca

Dal 22 al 27 gennaio 2019
Spazio Il Laboratorio

Via del Moro 49 – Roma

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