Testi critici

Estasi

La creatività è un’attività come la preghiera, dev’essere incessante e profonda, deve impegnare l’animo al 100 per cento, non permette distrazioni, non ha nulla del bohémien, è una pratica devozionale vera e propria… Non è un vanto avere una natura che tende all’ecumenismo, ma, di fatto, quando realtà diverse si armonizzano, mi scatta qualcosa, vedo il mondo come piace a me.” (Jovanotti, Gratitude, 2013)

Non è lontana la concezione del “mondo come piace a me” di Jovanotti dalle visioni estatiche di Santa Caterina. Estasi deriva dal connubio di due parole greche: ἔκστασις, stato di stupore della mente e ἐξίστημι, uscire di sé. Può essere definita come una forma particolare di esperienza psicologica durante la quale si ha l’impressione che la mente abbandoni il corpo ed entri in altre dimensioni: una sorta di separazione da se stessi e astrazione delle capacità naturali per arrivare a stati di coscienza particolarmente elevati.

Già Socrate, nei testi platonici, mette in evidenza come il filosofo, per avere accesso alla verità, deve estraniarsi da sé e dal mondo in cui è immerso; per Plotino, nello stato di estasi, l’anima, ormai distaccata da tutto, si unisce all’Uno; e in età tardo antica e medioevale il soggetto procede verso una conoscenza divina e non razionale. Sant’Agostino interpreta la parola estasi come excessus mentis, paura o elevazione verso Dio; in molte tradizioni religiose, e non solo quella cristiana, l’estasi si presenta come una delle forme più alte di esperienza religiosa, come strumento del rapporto mistico dell’uomo con il divino, come momento personale di unione dell’individuo con l’assoluto.

Scissoque corde…anima mea fuit ab hac carne soluta” dichiara Santa Caterina in una delle sue estasi mistiche: la santa, patrona d’Italia e d’Europa, aveva scoperto che la sofferenza e le privazioni materiali potevano attivare una vita sensoriale altra, un’unione a cui era possibile accedere solo attraverso lo sfinimento del corpo e l’affinamento dei sensi. Fino al Duecento, infatti, le donne si conquistavano la santità sotto la ferrea guida di padri confessori; a partire da Chiara d’Assisi, Chiara da Montefalco, Angela da Foligno e Caterina da Siena, sorge un modello di santità femminile non più vincolato ai valori della penitenza e dell’obbedienza, ma fondato sulla ricerca della mistica unione con lo Sposo. Le “nuove sante” scandalizzano e attirano per i loro comportamenti estremi e spettacolari: tramite l’automortificazione, il digiuno prolungato, il desiderio di martirio o imitatio Christi, la mistica del sangue e la visionarietà, varcano gli angusti confini della loro esistenza in una società dove erano costrette ad una condizione di non libertà e reclusione. E il corpo viene percepito contemporaneamente come ostacolo alla purezza, ma anche come strumento di comunicazione con Dio e testimonianza tangibile dell’evento mistico. “Nella tua natura, Deità eterna, cognoscerò la natura mia. Qual’è la natura mia? È fuoco.” In Santa Caterina tale fuoco non è individuale ma si estrinseca nel rapporto con la collettività e con la Chiesa: le visioni e i momenti di estasi rappresentano la manifestazione di Dio nella sua vita e la guida per la sua iperattiva missione religiosa. Estasi individuale che diventa impegno collettivo, ecumenico nel significato etimologico del termine (οικουμενικός che appartiene a tutta la terra abitata).

Durante l’Ottocento, la filosofia si riappropria del termine estasi: l’esistenza, in quanto fenomenica, è estatica e, per poterla comprendere, anche il pensiero deve uscire dal logos e proiettarsi verso la scissione temporale, protesa all’avvenire. Heidegger utilizzerà il termine estasi per caratterizzare proprio la temporalità nei suoi tre momenti costitutivi del passato, presente e futuro.

Lo psichiatra e psicoanalista Elvio Fachinelli, nel suo volume “La mente estatica”, afferma come l’estatico, uno strato percettivo, emozionale e cognitivo che abolisce i confini dell’Io, è stato sempre più disconosciuto e messo da parte, nel corso dei secoli, da una società che ha preferito ed esaltato la ragione tecnica, scientifica, basata sull’oggettività.

Infatti l’estatico è attualmente visto, da alcune correnti, come soggetto patologico: allucinazioni, esperienze di pre-morte e di uscita dal corpo, percezioni extrasensoriali, stimmate, ipnosi, meditazione, trance, coma, sindrome di Stendhal fanno parte di un insieme di fenomeni denominati stati alterati di coscienza o meglio stati non ordinari. Tali fenomeni fuori dall’ordinario, che comprendono sia l’esperienza mistica e sia casi di “elevazione dello spirito” come l’ispirazione artistica, sono stati, dunque, ricondotti a teorie nel campo delle neuroscienze e della psichiatria. La scoperta dei neuroni specchio ha posto in evidenza come essi sono responsabili dell’attivazione di determinate aree del cervello che portano, ad esempio nel caso di sindrome di Stendhal, il fruitore a uno stato di empatia inconscia e pre-riflessiva; mentre, secondo il neurologo Semir Zeki, ogni soggetto è dotato di un “cervello artistico”: ogni volta che ammiriamo un opera d’arte il nostro cervello non si limita a fare da spettatore alla visione dell’opera, ma ricostruisce e rielabora l’immagine appena osservata.

Così Fachinelli parla della nascita, nella società di oggi, di un Io forte, in continuo atteggiamento di difesa nei confronti di un pericolo interno, quel mare inconscio, insondabile, che, non essendo esperibile con i mezzi razionali, viene classificato come diverso, alterato, quindi semplificato ed incasellato in un ambito prettamente scientifico. Sintomatica del concetto di estasi nella visione contemporanea è l’esperienza vissuta da molti personaggi di Pasolini. Nel film Teorema, la risposta di ciascuno dei protagonisti all’incontro con il divino porta ad eccessi che sono molto lontani dalle valutazioni del benessere sociale e dagli standard decodificati: dopo aver vissuto la gioia eccessiva, non si può rimanere quello che si era prima e conformarsi ai dettami della società attuale. Ma proprio per questo si diventa alterati, non ordinari. L’estatico oggi affiora solo in esperienze limite, quando l’Io si svuota, si azzera, si distacca da se stesso e dalla sua volontà e si apre ad altro, visibile o invisibile. Tale apertura è per Fachinelli accoglienza verso ciò che è mistero, estraneità, enigma: l’inconscio non è il luogo di una minaccia che deve essere scongiurata e il sogno non è solo la ripetizione di tracce già scritte, ma il testimone di ciò che vogliamo e possiamo essere.

La mostra Estasi propone una riflessione sull’Io e sui meccanismi che si attivano accogliendo l’altro-da-sé in sé: estasi è vedere il mondo come piace a me, scandagliare le profondità dell’anima ricercando un’unione e una globalità dell’essere. Estasi è superare la dicotomia tra spirituale e razionale per raggiungere una fusione di corpo, spirito, mente e coscienza; estasi non è la patologia da cui dobbiamo guarire, non è l’andare fuori se stessi, ma accogliere l’io rinnovato dentro di sè. Estasi è così la costruzione del castello esteriore (Chiara Lubich, Costruendo il castello esteriore, 2002): il centro dell’interiorità dell’individuo – quello che Teresa D’Avila chiamava il castello interiore – si muove all’interno dell’interiorità di Dio stesso e si raggiunge solo attraverso la kenosi del proprio io che, ritrovando se stesso, si estende verso l’altro, in un procedimento di reciprocità. E’ un’esperienza non assoluta ed individuale ma che spinge al dono e alla condivisione, una natura che tende all’ecumenismo.

Toni Alfano, Maria D’Anna, Paola Di Gregorio, Gianni Grattacaso, Costabile Guariglia, Giorgia Madonno, Mauro Moriconi, Karin Pfeifer, Helen Broms Sandberg, Sula Zimmerberger propongono visioni estatiche, rappresentazioni del proprio universo interiore ed esteriore utilizzando diversi media e codici espressivi.

Toni Alfano vive, nel profondo e intimo sé, la memoria e il tempo quasi immutabile. La sua ricerca artistica procede dalla realtà quotidiana vissuta con pazienti che soffrono di demenza, malattia di Alzheimer o si trovano in stato vegetativo: stratifica identità remote, scalfisce tracce di andamenti perduti, in un processo di rimembranze e di lente ricognizioni tra superficie e oscurità delle viscere. Phenomenologies è una stanza del passato, che emerge dalla lettura e dalla riscoperta di depositi scavati e ricercati con la stessa precisione certosina dell’archeologo: ne è impressa, sul telaio di legno ricoperto dal profumo di calce di cemento, l’effigie velata di una figura, proveniente dal mare ignoto delle reminiscenze, definita dal tratto oscuro del carboncino e dalla patina ambrata del bitume. Alfano afferma e nega la propria identità con l’ultimo gesto di distruzione dell’esteriorità, nella speranza di riscoprire l’io disseminato in una alienata coscienza, fissando luoghi, movimenti, spazi, intervalli di anime sospese.

Maria D’Anna prorompe dalla solitudine e dall’incombere del tempo, fugge istantanee illusioni ricercate dalle immanenti velature e dalle ferite sanate dalle bende, impone una narrazione schietta, limpida, lontana dai gesti di morte e disconoscimento della realtà. La sua Santa Caterina è immagine pura e vivace: emerge dalle tenebre pur trasparenti dell’io, mascherate da antiche fasce e garze. E’ lontana ormai. Lontana degli occhi chiusi e bendati, lontana da grumi di sangue e colore, lontana da frammenti di materie animate. Con forza inequivocabile dichiara la propria indipendenza ed esistenza in una dimensione in continuo divenire; apre ad una eterea fragile bellezza, disciogliendo visioni e memorie. Maria D’anna rompe il silenzio dello spirito e lo fa con mano leggiadra e imperiosa: e dal candore della tela si erge l’innocenza non più trafitta dal dolore. Rimane solo la vita, contingente e metafisica armonia che dona se stessa schiudendo aliti e presenti certezze.

Paola Di Gregorio interpreta gesti e forme in un territorio illimitato e reiterato, rielabora simboli e simbologie interferenti in un percorso di autoconoscenza interiore, rendendo viva e visibile una religiosità atavica. Le figure femminili, da lei impresse attraverso il mezzo fotografico, permangono nell’oscurità delle ombre e nel contrasto di luci accecanti. Sussistono in una dimensione a-spaziale e a-temporale ed esigono una realtà di dominazione e controllo che coinvolge necessariamente oggetti ed esseri. Domin(i)o mette in scena il gioco di una esistenza vulnerabile ed instabile che, per professare se stessa, si colora di nuove immaginifiche essenze mistiche e magiche; imbandisce un sistema di relazioni dove ogni elemento appare e diventa significante solo in rapporto ad uno spirito altro, arcaico, abissale ed istintivo, che si materializza in forme pure e elementari ed evolve nella rinascita in un nuovo grembo materno.

Gianni Grattacaso narra di un paesaggio onirico e fluttuante, permeato dal silenzio della solitudine e dalle cadenze ritmate dei movimenti naturali. Gli abitanti del suo mondo sono esseri e anime, ombre di fronde e di voli che percorrono liquidamente istanti e spazi illimitati. Scruta e indaga colori e trasparenze che attraversano i contorni di figure quasi asessuate, meduse che hanno dimenticato la loro provenienza. Ode da lontano suoni e rumori e li imprime nell’attimo del momento fotografico, a svelare uno spirito nascosto e segreto. In Turbinio Risintesi la stessa natura si smaterializza, acquistando fattezze non conoscibili e riconoscibili, misurazioni frattali e ripetitive che ne svelano l’essenza geometrica. Visione ed estasi fanno parte di un universo ipnotico dove l’Io si rivela nella sua elementarietà e quotidianità, attivando una corrispondenza biunivoca tra soggettività e oggettività, oltre la quale ogni cosa si moltiplica e si divide.

Costabile Guariglia invoca aneliti di libertà, sorvolando la frammentazione e il dilaniamento del procedere umano e accettando senza difese, o quasi, l’irreversibilità della virtualizzazione del suo essere relativo. Organizza una linea ed un ambito spaziale, portando al collasso gli elementi generatori e generati da essi, operando in tal modo un ossimoro figurativo. Negando ogni affermazione, la Vergine di Guariglia si staglia alla vista immersa in un luogo a-topico, non facilmente definibile, privo di alcuna relazione identitaria, un non-luogo sacrificato sull’altare della globalizzazione. Sospesa su una vacuità permanente, l’immagine, celando lo specchio della sua anima raminga, afferma una apparente purezza, sottolineata dalla voluttuosità della carne e dalla materia di un ipotetico mondo vegetale, incastrato tra le ombre e le pieghe del corpo. Emette un ultimo gemito, respira ondate placide ed immobili, costretta in uno slancio libertario di un’intrinseca condizione di esclusione.

Giorgia Madonno abita uno spazio altro, una dimensione pensante che avanza nelle piaghe intime dell’anima accogliendo alterità e disconosciute analogie. Sopravanza in una traversata di colori e forme ricercando l’intenzione di ogni angolo esplorato: e nel mezzo di accese ombre e assordanti parole, rimane in silenzio, in attesa ed osserva l’attimo che accade. E’ un tempo illimitato, interstiziale, non concettualizzato, che rappresenta insieme uno scarto e un trait d’union tra presente e futuro: l’estatica di Giorgia Madonno giace in un contingente spazio-tempo nel quale muta lentamente sembianze, fino a trasformarsi in tempo sacro, esistenziale. Si fa etere, aura rarefatta, ora capace di penetrare nelle tensioni più oscure che albergano nelle essenze vitali. In una fusione di sfumature e velature sedimentate avviene l’incontro, tanto agognato, forse sognato, che dà alla vita un nuovo orizzonte.

Mauro Moriconi proietta l’osservatore in una visione futura e futuribile, imbastisce e tira i fili del gioco dei contrari e dei contrasti dove sempre impari è la lotta tra esseri superiori e fragilità umana. I paesaggi, e le figure immersi in essi, fluttuano in una realtà ambigua ed incerta ed incarnano questioni insolute in un sottile precario equilibrio. Le immagini di Mauro Moriconi sono terse, cristalline: si snodano in un susseguirsi di piani degradanti segnati da affilate linee incise che prefigurano i mondi dell’utopia. Immense è la raffigurazione di un sodalizio tra l’uomo – la Sposa – e gli elementi di una natura che avanza con tutta la sua potenza creatrice e distruttrice. Un manto adamantino li aggancia e li fonde in un indivisibile abbraccio: liberi e schiavi, provengono da un’unica fonte; ad essa si abbeverano, ne acquistano vigore e lì permangono in attesa di un viatico, alimento spirituale con cui affrontare il viaggio dentro la vita.

Karin Pfeifer vola e volteggia su uno schermo di proiezione vuoto, anonimo, lungo un orizzonte irraggiungibile, senza prospettive: con le ali dello spirito propone destinazioni di promesse e desideri inespressi, con l’unico obiettivo di un salto planetario del pensiero. Where to go è un passaggio mentale-reale che si confronta con la finitezza e l’immensità dell’essere e con la relatività dell’esistenza: inestinguibile il desiderio primordiale di abbandonare percorsi familiari e noti da sempre, per assumere e sondare nuovi universi, decifrare onde remote di un passato indefinito, imbrigliare la mente in luoghi e spazi della coscienza. Lungo il viaggio l’anima si mette a nudo, acquisisce consapevolezza di un etereo cambiamento, fino ad arrivare alla soglia della desolazione, dell’estrema libertà ed autodeterminazione. Disegna una scia nel suo andare, una coreografia interiore che dilata tempi ed immagini: ricontestualizza radicalmente l’Io spingendolo ad una estrema conversione.

Helen Broms Sandberg si spinge nelle sinuosità della memoria e scruta le polveri di identità ritrovate, in uno sforzo corale e collettivo. Delinea mondi paralleli persi tra simulazione e tangibilità: la sua è narrazione non lineare, che percorre in modo sincronico spazi e tempi diversi. Unlocking Passages proviene da lontane iconografie, prese in prestito dal cinema e teatro antico, leggende che si incarnano nella vita quotidiana e scalfiscono le pieghe dei ricordi. La figura, stagliandosi monocromaticamente sul fondo, si impone con tenacia, in uno slancio di determinazione positiva, ad affermare la presenza del corpo e l’immortalità dell’anima. Nel gesto della voce quasi pronunciata, fissata nell’attimo sospeso, Helen Broms Sandberg confessa un candido lascito, impresso nel fuoco della parola che testimonia passaggi tra stati di vita differenti.

Sula Zimmerberger ritrae con pazienza e dedizione il finito e l’infinito degli elementi naturali: soggetti privilegiati dei suoi scatti fotografici sono indifferentemente nuvole, alberi, arbusti, fiori che si intrecciano e si fondono in un insieme indeterminato, nel quale si perde la percezione del misurabile. Di trovare e inventare genera nuove forme di vita, che sorgono dalla distorsione ed evaporazione della realtà vissuta: occhi scrutano ed indagano, osservano dalle oscurità insondate, provengono da mondi altri nei quali vigono le leggi della fisica quantistica. Ogni immagine realizza uno spazio di possibilità in uno stato indefinito che, attimo dopo attimo, collassa e si riscopre sovrascritto, illusorio, variato nella sua posizione, appartenente a tempi coesistenti. E’ una struttura energetica, resiliente e resistente, che emerge dalle forme dei pensieri e dalle impronte magnetiche della memoria.

Non è più tempo di dormire; perché il tempo non dorme, ma passa come il vento.” (Santa Caterina, Lettera al Pontefice Gregorio XI)

Estasi
Toni Alfano, Maria D’Anna, Paola Di Gregorio, Gianni Grattacaso, Costabile Guariglia, Giorgia Madonno, Mauro Moriconi, Karin Pfeifer, Helen Broms Sandberg, Sula Zimmerberger
Curatela e testo critico Roberta Melasecca
10 novembre 2018 – Sala dei Grani Fortezza Vecchia | Livorno
Concept: Associazione Aequamente
Catalogo: Wazu Tempora I Lucca
Coordinamento scientifico: Raimondo Pinna
Promozione mostra: Associazione Aequamente / Autorità Portuale dwl Mar Tirreno Settentrionale
Allestimenti e coordinamento: Officine Lab
Ufficio Stampa: Press Office, Roma I Associazione Aequamente, Lucca

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